Intervista a Tony Arco, batterista e didatta di riferimento nella scena italiana del jazz

David Kikoski, uno tra i più acclamati pianisti jazz statunitensi, in trio con il batterista milanese Tony Arco ed il contrabbassista ligure Massimiliano Rolff, si esibirà in esclusiva al Teatro Bello (Via San Cristoforo 1, Milano) sabato 10 febbraio, ore 21.00.

The Front Row ha incontrato Tony Arco, Formatosi inizialmente in Italia, con Enrico Lucchini e Tullio De Piscopo, Tony Arco si è specializzato negli Stati Uniti sotto la guida di Gary Chaffee, Bob Moses e Alan Dawson.

Nel 1990 diventa il batterista del mitico “Wally’s Jazz Club” di Boston; vanta collaborazioni con autentici mostri sacri della scena jazz italiana e internazionale.(Tra gli altri Dave Liebman, Roy Hargrove, John Medeski, Bobby Watson, Tony Scott, Enrico Intra, Franco Cerri, Enrico Rava, George Garzone e Antonio Faraò.)

II 1995 è l’anno del cruciale incontro con Enrico Intra e Franco Cerri, che gli offrono la cattedra di docente alla prestigiosa Scuola Civica di Jazz a Milano, oltre al ruolo di batterista nella Civica Jazz Band e di direttore del gruppo di percussionisti Time Percussion, ensemble stabile della scuola.

 

Sabato 10 febbraio, con Massimiliano Rolff al contrabbasso, affiancherà, sul palco milanese del Teatro Bello, un mostro sacro del jazz come Dave Kikoski. E’ significa- tivo, secondo lei, che un musicista della scena newyorkese scelga di esibirsi nella zona milanese dei Navigli, che è stata un po’, dagli anni settanta ai novanta, la New Orleans d’Italia, prima di “spegnersi”?

Per poter rispondere a questa domanda, devo fare una necessaria premessa: ho sempre amato suonare con i bravi pianisti, e nella mia carriera ho avuto il privilegio di esibirmi con molti mostri sacri del panorama nazionale ed internazionale, tra i quali mi piace ri- cordare Kenny Barron, Phil Markowitz, Joey Calderazzo, George Whitty, Andrew Hill, Enrico Intra, Antonio Faraò e Paolo Birro.
Era diverso tempo che intendevo coinvolgere Dave Kikoski in una serie di concerti, e Massimiliano Rolff è il bassista ideale per questa formazione, grazie alla sua solidità ed esperienza.
Per la piazza milanese avevo in mente diverse location, ma ho fortemente voluto utiliz- zare la suggestiva cornice del Teatro Bello proprio perché, sia nel luogo che nella gestione, mi riporta piacevolmente all’atmosfera dei sopra citati locali, che per molti anni sono stati la mia seconda casa.
Auspico davvero che questa iniziativa possa fare da apripista per altre iniziative del genere in questa zona di Milano così vicina al mondo dell’arte.

Nel 1988, ormai pienamente inserito nel mondo professionale, ha deciso comunque di abbandonare tutto e partire per gli Stati Uniti. Ci vuole raccontare qualcosa dei suoi quasi cinque anni americani?

Certo.
Stiamo ovviamente parlando dell’epoca pre Internet e, per uno strumento come la bat- teria jazz, di chiara matrice americana, in quella fase della mia vita era per me fonda- mentale approfondire la conoscenza dello strumento e dello stile attraverso gli insegna- menti e le esperienze con i grandi didatti e musicisti americani.
Sono stati anni di enormi sacrifici (mi esercitavo fino a 12 ore al giorno), ma anche di enormi soddisfazioni.
Oltre ad aver frequentato da vicino alcuni musicisti stellari, ho avuto modo di avere a che fare con degli emergenti musicisti che sono poi diventati delle superstar internazionali, quali il compianto Roy Hargrove, Joshua Redman o John Medeski, oltre ad aver studiato con insegnanti leggendari quali Alan Dawson, Gary Chaffee e Bob Moses.

Attualmente, oltre a collaborare con eminenze del jazz italiano e internazionale, lei è all’unanimità considerato un punto di riferimento della didattica…

Tornato dagli Stati Uniti, ebbi la fortuna di entrare rapidamente nel giro professionale del Gotha dei musicisti italiani.
Per alcuni anni suonavo praticamente tutti i giorni, ma, inaspettatamente, arrivò il mo- mento in cui sentivo che solamente l’atto del suonare non mi bastava più: è cresciuta fortemente in me la necessità di condividere con giovani musicisti le mie esperienze e conoscenze acquisite negli anni.
Questo mi ha portato, dal 1996, ad insegnare presso i prestigiosi Civici Corsi di Jazz di Milano (allora diretti da Franco Cerri ed Enrico Intra e ora da Luca Missiti e Marco Maria- ni) oltre a diventare docente di ruolo al Conservatorio di Piacenza.

Nel corso di tanti anni ho avuto il privilegio di lavorare con studenti eccezionali e di grande talento, oltre ad essere richiesto per consulenze da diversi colleghi professionisti e insegnanti.

E’ più facile, oggi, fare jazz in Italia o all’estero?

Onestamente non credo sia un problema di luogo geografico, quanto di capacità di adattamento ai nuovi mezzi di comunicazione.
Oggi passa quasi tutto attraverso la rete ed i social, e da questo punto di vista le nuove generazioni sono avvantaggiate, in quanto strumenti appartenenti alla loro era.

Lei fa parte della band di Claudia Cantisani…cosa pensa del suo, per citare Caputo, “pop jazz and love”?

Da qualche anno a questa parte, le mie collaborazioni come sideman sono molto ridotte, in quanto preferisco collaborare in progetti che mi vedono in veste di leader o co-leader. Per Claudia ed il marito Felice, che collabora con lei nelle composizioni, faccio volentieri un’eccezione: la sua vocalità, il modo di gestire il palco e soprattutto l’immediatezza delle loro composizioni, fanno parte di quell’universo che chiamo semplicemente “bella musica”, e che purtroppo fatico a ritrovare nella gran parte delle nuove produzioni della musica italiana.

Gran parte del jazz contemporaneo impiega svariate metriche e ritmi che un tempo erano considerati inusuali…vuole spiegare ai profani le ragioni di questo fenomeno?

Le ragioni sono almeno due: in primo luogo, verso la fine del secolo scorso, laddove gli aspetti armonici e melodici di questa musica erano stati trattati in modo esaustivo, compositori, musicisti e arrangiatori hanno iniziato ad esplorare l’ultima frontiera, che era appunto l’aspetto metrico insieme a quello ritmico.
Altra ragione è l’effetto che Internet ha avuto sulla musica, in quanto musicisti di tutte le provenienze geografiche, come ad esempio l’area balcanica, l’ India o l’ area medio- rientale hanno potuto farsi conoscere in rete rendendo più accessibili delle ritmiche inu- suali nella cultura occidentale.
Per questa ragione, circa vent’anni fa ho pubblicato un metodo sull’argomento, edito dalla Ricordi (“Master in Batteria Jazz vol.2 – Tempi Dispari”).

Nel tempo c’è stata una crescita delle potenzialità espressive della batteria?

Proprio per le ragioni precedentemente discusse, la consapevolezza ritmica è cresciuta moltissimo negli ultimi trent’anni (bisogna anche ricordare la fusione con la musica elettronica, o generi come il Drum’n’Bass).
Questo ha fatto sì che il livello tecnico-espressivo delle strumento sia aumentato espo- nenzialmente da allora, e oggi si possono trovare batteristi straordinari in ogni genere musicale.

Lei è uno “Specialista degli organici allargati”…la collaborazione con orchestre sin- foniche e big band regala emozioni particolari?

Assolutamente sì.
Guidare i grandi organici è una enorme responsabilità per un batterista, e moltissime volte ho dovuto affrontare repertori e situazioni estremamente difficili, ma il sentirsi

immersi nella moltitudine di suoni che una big band, un’orchestra sinfonica o anche un grande coro ti possono dare, per me è la dimensione più sublime che un musicista possa sperimentare.

 

Testo a cura della Redazione

un ringraziamento particolare a Verbatim Ufficio Stampa

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