Good Moaning, la recensione di The Roost

Good Moaning    

THE ROOST

 

Canzoni spiaggiate su di una arcipelago abbandonato di un continente scomparso. I Good Moaning vengono dalla Puglia e sono una realtà al secondo lavoro dopo l’ep “Hello, parasites”, che ora fa uscire The Roost.

Otto tracce di delicati frangenti che spazzano via la noia con soggettività dream folk e un taglio lo-fi, tra cantato in inglese, keyboards nascoste e acustica segnata dal torpore dell’indie anni ’90.

Noise eclettico in chiave minimal folk (iniziale mother-door), passaggi alla Yuppie Flu (suitcase), e una certa malinconia di fondo, con un disegno ricco di creature art-rock. I Good Moaning propongono coì un cantato folk e delle architetture precise, costruite e salde su di un terzetto che ora mette dentro un basso per essere più denso e per cercare una strada ancor più sognante.

I bei tempi dei Grandaddy tornano in auge con pezzi come cornwall e scarecrow, nelle chitarre acustiche di pomeriggi impertinenti, con una scrittura invidiabile e un tono alternative. Qualche linea psichedelica non guasta, per un quartetto che ama sedurre con  parole sussurrate e istinto liberatorio, in un prodotto che va oltre la confezione e tira dritto al punto.

Che si al punto di partenza, per un gruppo che cresce alla distanza, abbandonando distorsioni e abbracciando liriche che possono ancora crescere (sentite l’armonica di yousuck e capirete).

 

Andrea Alesse

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