Black Mountain, stato di trance ed estasi musicale di una sera al Magnolia

Strana serata, quella di sabato scorso a Milano. Da un lato della city si esibisce quello che resta dei mostruosi King Crimson, dall’altra invece trovano spazio 5 canadesi che hanno preso e reinterpretato quei suoni krimsoniani, costruendoci sopra una carriera degna di nota. I Black Mountain da Vancouver sono ormai una certezza nell’underground planetario, con quattro album prodotti e tanti Ep e collaborazioni alle spalle. Ad aprile hanno fatto uscire IV, sintesi di un filone musicale aggiornato a nuovi suoni apocalittici e psycho progressivi, con lunghe cavalcate nel deserto del classic rock. Suoni giurassici? Non penso proprio. Più che altro un modo di suonare che volta le spalle a post e indie rock per apparire tremendamente ancorato alle origini.

Lo show del Magnolia non può che confermare tutto questo, mettendoci di fronte a dei Black Mountain ormai maturi e a secco di pose rock e altri atteggiamenti da copertina.
Amber Webber (voce ma anche maracas e chitarra) è la dea rock che intona il flusso di coscienza della musica dei canadesi, con addosso un chiodo che le fa da corazza e zero (dico zero) parole che non siano quelle delle loro canzoni. Fredda e distaccata, è la testimonial della ruvida interpretazione di un sound condito da echi zeppeliani e floydiani, devoto alle chitarre e alla voce del buon vecchio Stephen McBean. Al basso, l’attitudine regna sovrana con Matt Camirad, clone misterioso dei personaggi di breaking bad, mentre il freak Schmidt suona chiaramente organo e mellotron. A tratti, tutto è costruito intorno alla batteria di Joshua Wells, giovanotto energico e coinciso che alza i toni a suo piacimento. Si parte forte con Mothers of the Sun, prima esperienza mistica che si avvinghia alla voce della cantante per esaltare visioni oniriche. Le visioni continuano con Florian Saucer Attack, mentre è Stormy High a riportare i fan indietro nel tempo, con l’album In the future (2008), manifesto di una band in pieno stato di esaltazione psichedelica. Dallo stesso album, ci sarà poi spazio anche per Tyrants, violenza sonora che si fa grezza protesta quando i figli della montagna nera intonano Bastard, you won’t be forgiven and no, we won’t lay down. Cemetery breeding è invece un tessuto sonoro che gronda di alt-rock pianificato, suonato poco prima degli unici pezzi tratti da Wilderness Heart (terzo disco del 2010), ossia Rollercoaster che, che in 5 minuti e scarsi 15 secondi trasuda rock di alta scuola sabbatthiana, e Old fangs, lunga passeggiata in vallate sperdute dopo un pomeriggio passato a ingoiare acidi e ascoltare vinili di marca seventies a base di Kraut rock. La liturgia dei Black Mountain termina con i tre versi ripetuti di Space to Bakersfield, non una pratica da sbrigare ma acide chitarre e sinth noise, direttamente dalle viscere della montagna nera.

Grazie  a Barley Arts Promotion per l’invito.

 Testo a cura di Andrea Alesse.

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