Marta De Lluvia e la meraviglia di essere vulnerabili. Intervista all’Artista recanatese

E’ uscito il 27 ottobre, su tutte le piattaforme digitali e su cd, “La festa che non c’era”, secondo album in studio di Marta De Lluvia.

 

Dopo “Grano” (Orange Home Records, in cinquina alle Targhe Tenco 2019 come “Miglior Opera Prima”) Marta De Lluvia torna a far sentire la sua voce con un lavoro interamente autoprodotto, cui hanno preso parte due arrangiatori e numerosi musicisti di ambiente romano. La produzione artistica e gli arrangiamenti sono di Edoardo Petretti, con Federico Ferrandina agli arrangiamenti e alla direzione degli archi.

 

The front Row ha incontrato la cantautrice e poetessa recanatese per una chiacchierata su musica e poesia, fra autobiografia e tensione all’universalità.

 

A proposito del lavoro di prossima uscita, “La festa che non c’era”, ha dichiarato: “le 12 tracce sono fortemente autobiografiche. Tuttavia, le esperienze e gli stati d’animo vengono condivisi con la speranza di incontrare ed abbracciare quelle di altri.

Le chiediamo una riflessione sul valore dell’autobiografia nella canzone d’autore e più in generale, nella poesia contemporanee.

 

L’autobiografia è sempre il punto di partenza di qualunque cosa si scriva. Persino se si scrive di altro, di altri, mettiamo la nostra firma nel “modo”, nelle parole e suoni che scegliamo. Consapevolmente o no, sempre raccontiamo di noi stessi. Quindi, dall’autobiografia non si può prescindere, anche volendo. Quello che però  è importante quando si scrive è allargare la propria esperienza, il proprio sentire, capire che cosa lega la nostra vita a quella degli altri, capire che valore ha quell’esperienza per noi e per tutti . Bisognerebbe lasciarsi ispirare, togliere se stessi dal centro, aspirare all’universale. Questo fa l’arte. Se resta solo la nostra storia, a me personalmente, non interessa.

 

Nel 2013 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, “In sé maggiore”. C’è un verso che, ad oggi, non scriverebbe più?

 

No, ma rivedrei l’uso delle maiuscole in alcune parole. “Perdono, Padre” e altre, in diverse poesie. Rivedrei “le maiuscole della mia vita” (da una mia vecchia canzone), dunque l’importanza e il senso da dare ad alcuni concetti.

 

Dopo “Grano” (Orange Home Records, in cinquina alle Targhe Tenco 2019 come “Miglior Opera Prima”) Marta De Lluvia torna a far sentire la sua voce con un lavoro interamente autoprodotto.

Quali sono le ragioni che l’hanno fatta propendere per una autoproduzione?

 

Ho sentito che volevo fare un lavoro totalmente mio, metterci la faccia, espormi in prima persona, prendermi la responsabilità del bello e del brutto, delle lodi e delle critiche, delle scelte azzeccate e degli sbagli.  Chiaramente il direttore artistico Edoardo Petretti, e Federico Ferrandina che ha arrangiato gli archi, hanno fatto una grandissima parte, ma li ho scelti e cercati io. In quel momento avevo i fondi, ed ho voluto mettermi alla prova, dire “ecco, questa è Marta De Lluvia”, “questa è la mia musica” ma anche “questa è la mia forza.” A livello personale è stata una scelta molto importante, come mettere un grandissimo mattone in più nella costruzione del mio percorso.

 

Rispetto a “Grano” “La Festa che non c’era” si pone in una linea di continuità o è un lavoro “di rottura”?

 

Sento questo disco come uno sviluppo del primo. Le parole, i concetti si sono estesi, ramificati. I suoni si sono arricchiti, sono usciti a volte da dove mi sentivo al sicuro. La Festa che non c’era è un disco importante per quello che scriverò dopo, ha gettato dei semi, delle consapevolezze.

 

Nella nota stampa, a cura di Verbatim, “La festa che non c’era” viene definito come un quasi concept sull’appartenenza. Che significato ha per lei questa parola, così carica di suggestioni, di criticità e di ambivalenze?

 

Per tanto tempo il mio “motto” è stato “Io non appartengo.”, ma questo non voler rientrare in nessun gruppo, rapporto solido, categoria, mi rendeva impossibile riconoscermi, specchiarmi in qualsiasi cosa o persona. Il disco racconta l’evoluzione di questo sentire: la libertà che diventa responsabilità, che diventa restare, che diventa costruire. Appartenere significa scegliere i propri amori (persone, ideali, luoghi, progetti) e essergli fedele, perseverare anche quando sentiamo di perdere qualcosa di noi stessi. Non credo sia possibile essere davvero liberi se non si appartiene a qualcosa. Dicendola alla Gaber: “libertà è partecipazione”.

 

Lei stessa ha definito il suo ultimo album “un disco che vuole raccontare e legittimare l’esperienza della vulnerabilità.”

Mostrarsi vulnerabili può essere un gesto dalla carica insurrezionale, ai giorni nostri?

 

Io ho scoperto la meraviglia di essere vulnerabili grazie a mio figlio. Non solo un bambino è totalmente incapace di difendersi, innocente, diretto, aperto, ma attira e permette anche la vulnerabilità degli adulti: sorrisi, tenerezze, attenzioni da parte delle persone, come se per un momento togliessero la corazza e si lasciassero toccare. Io credo che rivoluzionario sia accettare la vulnerabilità degli altri, permettere che accada, abbassare tutti la guardia.

 

L’artista con cui sogna di collaborare?

Brunori.

 

 

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