Elisa si confessa: la mia storia, la musica, l’Arena di Verona

Elisa, all’anagrafe Elisa Toffoli, nasce il 19 dicembre 1977 a Trieste e cresce a Monfalcone. Fin da piccola manifesta interesse verso varie forme d’arte, dalla danza, alla pittura, alla scrittura di brevi racconti ma è nella musica che il suo talento trova il modo naturale di esprimersi e già all’età di undici anni inizia a scrivere i primi testi e le prime melodie.

Durante l’adolescenza lascia la scuola subito dopo la terza media e per tre anni lavora come parrucchiera presso il salone della madre. Questo lavoro, insieme alle esperienze in studio come corista e alle serate di pianobar nel fine settimana le permettono di poter seguire e pagarsi le lezioni di pianoforte e di dizione. La passione per la musica è forte, la voglia di condividerla diventano un desiderio bruciante e così comincia ad esibirsi con gruppi di vario genere: suona il basso in un gruppo noise-punk, la chitarra in un altro dalle sonorità britpop (a la Blur, Charlatans, Verve), canta per due anni in un’orchestra swing (standard jazz e swing) e in un gruppo rock blues che proponeva tra gli altri pezzi di Dylan, Van Morrison e Cat Stevens.

All’età di sedici anni un suo demo viene consegnato a Caterina Caselli che, colpita e affascinata, ne intuisce il potenziale e offre ad Elisa un contratto discografico. Nei mesi successivi prende un volo per gli Stati Uniti dove vive per tre mesi a Berkeley, in California. Lì lavora con Corrado Rustici al suo primo disco.

Da quel momento nasce l’artista, ormai sulla scena da 20 anni. In occasione di Collisioni Barolo 2017, l’artista si è confessata. Ecco cosa ha raccontato.

Qual è la prima foto che ti viene in mente?

«La prima è tremenda ed è stata scattata in piazza del Duomo a Milano. Sebbene abbia la fobia dei volatili non ho avuto il coraggio di avvisare il fotografo. Oggi quello scatto che mi ritrae mentre urlo terrorizzata è in giro nella rete. Lui pensava che stessi recitando, ma non era proprio così».

Il primo scatto l’abbiamo in mente ed ora vedremo quella dei 20 anni di attività, magari scattata all’Arena di Verona dove, in settembre, terrai vari concerti.

«Sarà un elogio alla mia passione per i vari generi musicali. Ogni spettacolo sarà dedicato ad uno solo di essi. Partirò con una serata pop-rock, per passare a quella corale e acustica in cui sarò affiancata da un coro gospel e 35 voci bianche. Poi ci sarà un’inedita serata orchestrale, che mi farà ritornare alle radici, quando suonavo e cantavo in una big band di 20 componenti. A Verona ci saranno 70 elementi sinfonici e per me sarà davvero un sogno. Ma non celebrerò solo me stessa. Ci saranno tantissimi amici al mio fianco. Ad ognuno di essi rivolgerò il mio ringraziamento per avermi regalato qualcosa di importante».

Come adatterai i brani per un’orchestra così grande?

«Non ci ho pensato e nemmeno lo farò. La vecchiaia porta esperienza e così mi sono affidata a Patrick Warren, un arrangiatore americano che ha collaborato con artisti famosissimi. Ci penserà direttamente lui»

Al di là di queste tre anime quale è la vera Elisa?

«In realtà c’è un po’ di me in ogni genere. Io sono tendenzialmente selvaggia ed istintiva, anche se poi questa indole non emerge e la conoscono solo i miei amici più intimi. In realtà in pubblico sono una persona timida e timorosa. Di sicuro sono una persona semplice, ma dal punto di vista musicale questa mia indole non riesce ad emergere. Mi sforzo di esserlo, ma non sempre riesco a raggiungere l’obiettivo. La prova di ciò che vado dicendo sono i miei dischi che sono molto diversi tra di loro. A volte mi stupisco che il pubblico riesca a starmi dietro in tutti questi cambiamenti».

Come sarà l’Elisa del futuro?

«Non so francamente se riuscirò a seguire una strada rettilinea. Ma mi impegnerò per farlo».

Cosa diresti a quella ragazza che 20 anni fa prese l’aereo per iniziare l’avventura musicale in America?

«Le direi: “tranquilla quell’aereo per la California non cadrà”. Scherzi a parte, probabilmente cercherei di convincerla che a 21 anni si è ansiosi e si rischia di non godere appieno di tutto ciò che ti regala la vita. Le sussurrerei: “occorre lasciarsi andare, mollare i freni e vivere con intensità”».

Ci sono canzoni che pensavi fossero personali ed invece sono diventate preferite dal pubblico

«”Qualcosa che non c’è” è una di queste. L’ho scritta una sera dopo aver visto Vasco Rossi a Grado. Non avevo nemmeno intenzione di farla ascoltare a qualcuno, perché ritenevo quel testo troppo introspettivo. Settimane dopo chiacchierando con una mia amica mi sono lasciata scappare la presenza di questo brano. Dopo molte insistenze gliel’ho cantato. E’ stata proprio lei, la mitica Roby a convincermi di preparare il demo e portarla alla casa discografica».

Chi sono i tuoi primi critici?

«Sicuramente gli amici. Farei ascoltare i pezzi in anteprima ai miei fan, ma per ovvi motivi non posso. Una volta era mia madre, ma oggi è diventata troppo buona ed emerge la sua “nonnitudine”»

Qual è la tua lingua preferita?

«Ho sempre cantato in inglese, per una sorta di insicurezza sociale e perché ritengo questa lingua più musicale. Ho studiato poco e male e sentivo questo peso al punto di vergognarmi di scrivere in italiano. Un bel giorno mi sono sbloccata e tra mille insicurezze ho deciso di affrontare il repertorio in lingua madre. Devo dire che ancora oggi l’Italiano non ha le spalle così forti e ripongo tutta la mia creatività nell’Inglese al punto che spesso mi ritrovo a pensare “straniero”».

In futuro cosa ci sarà?

«Nel cassetto ho cose variopinte e sono scritte in entrambe le lingue. Per la prima volta mi sono confrontata con altri autori, tra questi Davide Petrella, Tommaso Paradiso (The Giornalisti, ndr) e Calcutta. Sono stati incontri stimolanti che mi hanno ispirata».

Torneresti a Berkeley?

«Il mio piano diabolico sarebbe quello di passare parte della mia vita lì, magari comprandomi una casa. Spero che la cosa possa concretizzare al più presto. Si tratta di un sogno, anche se i sogni non costano nulla e spesso si avverano».

Hai mai avuto paura di trasmettere un messaggio sbagliato?

«i sono canzoni che hanno un significato e che spesso il pubblico gliene attribuisce un altro. Una di queste è per esempio “The marriage”. Al di là di quanto si possa pensare l’ho scritta per affrontare la paura del buio. Un timore che è nato intorno ai 12 anni, quando ho perso il mio migliore amico. Ecco tutti pensano che il brano parli di un matrimonio, invece è stata la via per esorcizzare quel nero che c’era in me».

Qual è il segreto per vedere il sole anche quando ci sono le nuvole?

«È una domanda profonda. Il segreto mi arriva da mio nonno. Lui era una persona di poche parole segnato dalle esperienze di gioventù. In guerra ha patito la fame e vissuto una tragedia indicibile. Ancora oggi quando mangia la pasta si copre la bocca per paura che qualcuno gliela possa rubare. Ebbene non l’ho mai visto triste. Anzi credo sia la persona più solare che io conosca».

Vincenzo Nicolello

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