Anastasio: opera rap al Monk di Roma

Quello a cui abbiamo assistito ieri sera al Monk di Roma non è stato un semplice concerto, ma una messa in scena intensa e stratificata, dove musica, teatro e parola si sono intrecciati fino a formare un racconto unico.

Anastasio ha portato sul palco la sua Opera Rap, un progetto che ha unito le radici hip hop a influenze rock, indie e cantautorali, dando vita a uno spettacolo dal forte impatto emotivo e concettuale.

L’artista ha esordito sdraiato sul palco, e acceso poi una ring light, simbolo di un’epoca ossessionata dall’immagine, per poi proseguire la serata con un occhio coperto da una garza, come un moderno Ciclope. Un gesto scenico dal valore simbolico: guardare il mondo con un solo occhio, ma con una visione più profonda e consapevole.

Sul palco con lui Giacomo Lilliù, che ha accompagnato la narrazione con interventi teatrali precisi e mai invadenti, e i musicisti Greg Calculli (chitarra e tastiere) e Marco “Lancs” Lanciotti (batteria), capaci di costruire un suono solido e denso, perfettamente intrecciato alle parole e alle dinamiche emotive del racconto.

Il risultato è stato uno spettacolo ibrido e affascinante, dove ogni elemento — visivo, sonoro, narrativo — ha contribuito a creare un equilibrio fragile e potente allo stesso tempo.

Dopo alcuni anni di silenzio, Anastasio è tornato con il concept album Le macchine non possono pregare, pubblicato ad aprile da Woodworm/Universal. Un lavoro che riflette sul rapporto tra uomo e tecnologia, fede e razionalità, libertà e alienazione.

I testi, densi di riferimenti letterari e filosofici, hanno trovato sul palco una nuova dimensione, amplificata dalla sua presenza scenica e dalla capacità di alternare rabbia e fragilità con disarmante naturalezza.

Nel corso della serata, la parola “rivoluzione” è tornata più volte come un filo conduttore.

Non una rivoluzione gridata, ma silenziosa, personale: quella di chi sceglie di restare fuori dalle logiche dell’intrattenimento televisivo, di non rincorrere il successo facile, e di continuare a cercare una propria voce autentica.

“La più grande rivoluzione è abolire il tempo”, ha detto Anastasio in più occasioni.

E ieri sera, tra le luci che si affievolivano e il pubblico sospeso nel silenzio, è sembrato che davvero il tempo si fosse fermato.

Il pubblico è uscito dal Monk con la sensazione di aver assistito a qualcosa che andava oltre il concerto: un racconto sull’uomo, sulla parola e sulla necessità di restare umani. Un concerto dal forte impatto emotivo e concettuale, sviluppato su più piani narrativi, che non può lasciare indifferenti e a cui vi consigliamo vivamente di assistere. Per il bene dell’arte, della poesia e contro “la dittatura dell’intrattenimento”.

Testo e foto di Ginevra Baldassari

Ringraziamo Giorgio Castelli del Monk

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