Parquet Courts e Pill, a Milano arriva il NY sound

Avete bisogno di una serata di sana alternative music per scacciare via i fantasmi di un’uggiosa domenica autunnale? Eccovi serviti. Direttamente da NY city, grazie a DNA concerti e all’Arci Biko, arrivano i Parquet Courts e, a supportarli, i loro compagni di bus Pill. Iniziano proprio loro a seminare il concept musicale della serata, deliziando il pubblico con un cocktail di nervous rock e, a tratti, anche di free jazz, accompagnato da sassofono alla The Ex. Voce femminile alla Help she can’t swim e chitarre ruggenti che ricordano Black eyes e Q and not U, per una band che potrebbe bene figurare in qualsiasi cofanetto della Dischord di Ian McCaye (etichetta storica fondata dal leader dei seminali Minor Threat). Molta attitudine e pochi fronzoli, in un concentrato energico e motivato che comincia a far saltellare il circolo Arci intitolato all’attivista sudafricano Anti –apartheid.

Tocca poi ai Parquet Courts, quattro imberbi personaggi che potresti incontrare in qualsiasi mezzo di trasporto pubblico in zona Brooklyn, vestiti in maniera semplice e abbastanza sganciati dalle dinamiche social dell’era moderna. Umili e concreti, nonostante la recente copertina di una delle più importanti riviste di musica nostrana, ecco Andrew Savage (voce e chitarra), Austin Brown (altra voce, chitarra e keyboards), Sean Yeaton (basso e cori) e Max Savage (batteria). Dopo una intro che già intona i ritmi robusti, inizia il repertorio targato Human Performance, album del 2016 che segue Content Nausea del 2014 e segna la continuità dei nostri con una miscela esplosiva di art punk, indie ironico e garage rock. Si parte con Dust, accordi secchi e annoiati a base di chitarre lo-fi e ritornello accattivante, e tocca poi a Human performance e Outside, in cui scomodiamo Pavement e Devo.
Una dote che non manca ai Parquet Courts è sicuramente la capacità di unire sonorità diverse, come in I was Just Here, ipnotico groove ripetitivo e ingombrante che poi sfocia in un riff finale che fa pogare il pubblico, letteralmente a contatto con la band grazie al palco basso nel puro stile dei club londinesi. Si continua con accordi alla Buzzcocks e la splendida Captive of the sun, accattivante canzone dai toni mistici. Nel mezzo della serata vengono poi ripesi vecchi pezzi, con Andrew Savage che si carica sulle spalle i brani più acuti e urlati (Paraphrased) e Austin Brown (vistosa somiglianza con il filosofo ragazzino di Little Miss Sunshine) che invece intona le canzoni con intensità minore (Steady on my mind). Da notare, è l’impressionante capacità di cambi ritmo e la sfrontatezza di Savage e Brown nel suonare distorti accostandosi agli amplificatori per aumentare gli effetti distorsivi, mentre l’altro Savage e il Yeaton non si scompongono mai. Si conclude con Berlin Got Blurry e One man no city, brano con accenni tribali di elevata godibilità per le orecchie dei presenti. Insomma, grazie ai Parquet Courts, tutti ieri sera abbiamo avuto meno di trent’anni e ci siamo immaginati in un qualsiasi covo musicale americano, stringendo sotto braccio un disco dei Fall.

Grazie a Dna concerti per l’invito.
Testo a cura di Andrea Alesse

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