Beppe Vessicchio: la musica, i pomodori e il disagio giovanile

Giuseppe Vessicchio (o Beppe, o per gli amici Peppe) è certamente uno dei personaggi televisivi più noti del nuovo millennio. Quel pizzo brizzolato, quella zazzera inconfondibile e quello sguardo da sornione, sono un classico del piccolo schermo, specie quando viene trasmesso il Festival di Sanremo. In apparenza timido è davvero un fiume di parole, con quel suo leggero accento partenopeo, racconta la musica dal suo punto di vista, che non è quello del microfono, ma quello della bacchetta. È compositore, arrangiatore, esperto delle sette note e francamente è un piacere vederlo all’opera, ma è altrettanto interessante ascoltarlo. La scorsa settimana è stato ospite della Banca d’Alba per un concerto privato ed abbiamo colto l’occasione per rivolgergli qualche domanda.

Maestro lei è il volto più noto di Sanremo, cambiano i presentatori, ma lei è sempre acclamato. Quest’anno tuttavia al Festival non l’abbiamo visto e alla fine ha trionfato un brano trap,  molto distante dal suo modo di intendere musica. Sarà solo un caso?

«Sembra strano, ma probabilmente fa più discutere la mia assenza, piuttosto che la mia presenza al Festival. Ritornando alla sua domanda, posso dire di aver vissuto la mia vita cercando di ascoltare con attenzione tutto ciò che veniva proposto ed ho sempre pensato che ci sia posto per tutte le proposte musicali. La cosa che mi preoccupa oggi non è tanto il fatto che certe tendenze esistano, ma che trovino così facilmente seguito. Io non affiderei a questi generi musicali una forza, ma stabilirei più che altro la debolezza di chi li segue e li ascolta. Mi preoccupa molto questa cosa, perché certi interpreti “trap” non spendono parole di pace, anzi incitano alla violenza. Io temo che tutto questo sia determinato dallo smarrimento dei giovani. La scuola, che era un punto di riferimento è sfasciata. La musica che è stata il nostro fiore all’occhiello è stata messa da parte. Tutto volge verso la scontatezza. Mi auguro che in un prossimo futuro di possa ritornare ad apprezzare la complessità. I capisaldi dell’arte che ci hanno reso famosi nel mondo erano incentrati proprio sulla complessità. La semplicità deve essere utilizzata soltanto nella comunicazione, per arrivare al cuore della gente. Papa Francesco in questo senso è un esempio».

Che idea si è fatto del Festival di Sanremo?

«Sanremo al di là dei contenuti è un momento magico della musica popolare italiana. Non dobbiamo dimenticare che di là sono passati tutti, da Vasco a Bocelli, da Zucchero a Ramazzotti. Anche i Negramaro sono entrati ed usciti cinque minuti dopo, giusto il tempo di fare una canzone ed essere eliminati. A livello internazionale sono passati da Sanremo Luis Armstrong, Stevie Wonder. Insomma è una manifestazione straordinaria. A volte è malata, a volte sta bene, ma rimane centrale alla diffusione della musica. Io ho una mia critica da muovere. Negli ultimi anni, diciamo un ventennio, è diventato preponderante la gestione della televisione, così si parla di successo eccezionale andando ad esaminare i dati d’ascolto, ma di fatto dopo sei mesi non ci ricordiamo nemmeno uno dei brani che hanno partecipato. Ecco direi che l’ultimo che ha avuto a cuore il risultato musicale è stato Pippo Baudo».

Ma il Pippo nazionale non è troppo legato alla tradizione?

«Sicuramente è una persona legata alla tradizione, ma ha sempre avuto il coraggio di sperimentare. Non dimentichiamo che lui ha portato Elio e Le Storie Tese. La sua scommessa è sempre stata quella di proporre progetti nuovi affiancandoli ai grandi classici. A lui piace contrapporre due mondi molto distanti tra di loro. Un Festival, per chiamarsi tale deve avere una visione plurale dei fenomeni musicali. Oggi la televisione ha la tendenza a prendere materiale di cui si sente già sicura. Quest’anno un elemento determinante della scelta dei cantanti è stato il numero delle visualizzazioni su Internet. In poche parole si è cercato di cavalcare il numero di “like” portandoli sul palco dell’Ariston. A volte bisognerebbe prendersi la responsabilità di proporre cose sconosciute, anche a costo di fare flop».

Cosa vuol dire essere musicisti oggi?

«Oggi è molto difficile, molto più di ieri. Ma questo ieri risale a tanto tempo fa. Abbiamo avuto una rivoluzione musicale nell’800, che ha tranciato una serie di conoscenze e presupposti che erano molto più sani. Fino ad un certo momento abbiamo avuto un’evoluzione naturale della fisica del suono, dopo la rivoluzione abbiamo lasciato spazio all’aspetto culturale, che ha fatto della musica un simbolo di appartenenza. In questo momento storico direi che stiamo pagando un altro aspetto evolutivo, quello della commercializzazione. I circuiti di vendita finiscono per influenzare i contenuti. Oggi nel tentativo di compiacere al mercato ci si allontana dalla propria filosofia.  I giovani si trovano a disposizione mezzi molto rapidi per avere un riscontro. Proprio questa velocità impedisce l’approfondimento del linguaggio e l’emersione di valori inesplorati».

Quindi dominano major e radio?

«Beh certamente. Basti pensare che le radio che impongono la durata dei brani. Oggi una canzone deve durare 3 minuti e mezzo e questo limite è un’intromissione nei contenuti. Questo modus operandi oggi renderebbe impossibile il passaggio di brani storici come Hotel California degli Eagles, che ha un intro che dura 52 secondi. Oggi un brano a 52 secondi è già al ritornello.  La cosa non va bene.  Ma le imposizioni proseguono anche nella dinamica del brano. Se il suono scema al di sotto di un certo numero di decibel, appare come se ci fosse una perdita di segnale. Oggi De Andrè avrebbe grandi difficoltà ad affermare il suo valore e come lui tanti altri».

Insomma si sta assistendo alla distruzione della musica, almeno per come la intende lei?

«Viviamo nell’epoca delle cuffiette e perdiamo la possibilità di lasciar vibrare la musica nell’aria. Consumiamo i brani in piedi, durante l’attività frenetica. La musica è soltanto più un prodotto da consumare. Auguro alle nuove generazioni di apprezzare il valore acustico di un brano ascoltato in un ambiente chiuso e di apprezzare la gioia di condividere l’ascolto con altri».

Lei ha scritto un libro, con il quale ricorda come la musica sia in grado di far crescere meglio i pomodori…

«Non mi stanco di ripeterlo. Ci sono molte ricerche nel mondo che hanno dimostrato di come la musica sia centrale in tutta una serie di fenomeni, che se visti singolarmente potrebbero far pensare alla casualità. Mettendo insieme tutte le tessere, invece, si scopre che il linguaggio musicale è estremamente potente. Ultimamente ho letto di una ricerca fatta in una classe delle scuole elementare, cui è stata data la possibilità di scegliere se giocare con i suoni o con le immagini. La cosa straordinaria è che la classe dopo soltanto 20 lezioni, in cui ha giocato con le note, ha manifestato un incremento del 90% delle capacità linguistiche. Il mettere insieme i suoni è risultato uno stimolatore eccezionale. Le piante non hanno neuroni ovviamente, ma reagiscono coerentemente al movimento dell’aria causato dalla musica. Tutti sanno che dal punto vista medico la malattia è classificata come un’incoerenza.  Quando il nostro corpo trova una forma di riflessione con un elemento altamente coerente, ne trae un vantaggio, come se si rispecchiasse. È chiaro che a rallentare il tutto ci sono le sovrastrutture culturali. Le piante, che non hanno un cervello rispondono in modo molto più naturale».

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