Ex-Otago: un successo partito da Marassi e raggiunto a colpi di pop-popolare

Gli Ex-Otago si formano a Genova nel 2002 come trio acustico composto da Maurizio Carucci, Alberto “Pernazza” Argentesi e Simone Bertuccini. Nel 2004 si unisce al gruppo il batterista Simone Fallani. Pubblicano il primo album nel 2002, “The chestnuts time”, e nel 2007 il secondo “Tanti Saluti”. Seguono nel  2011 “Mezze stagioni” e nel 2014 l’album “In capo al mondo”. Il 2016 è l’anno che sancisce la collaborazione degli Ex-Otago con l’etichetta bolognese “Garrincha Dischi” e con l’etichetta torinese Inri. Esce “Marassi”, un album di successo che ha in “Cinghiali incazzati” e “I giovani d’oggi” due singoli che vanno in rotazione sulle principali radio italiane.

Ma chi sono davvero gli Ex-Otago? La domanda l’abbiamo rivolta a Maurizio Carucci, frontman e mente storica della band, che ci ha concesso questa intervista.

«Siamo un gruppo di cinque ragazzi che hanno scoperto la soddisfazione e il benessere che deriva dal fare musica. Siamo partiti da Marassi una quindicina di anni fa e credendoci sempre di più siamo arrivati fino ad oggi. Arriviamo dai quartieri più poveri ci piace definirci pop popolari. Il presente parla di un disco (“Marassi”, ndr) che sta andando molto forte e di moltissimi concerti con una marea di persone ad ascoltarli. Insomma siamo un gruppo di successo»

Un successo che vi ha spinto a dichiarare di sentirvi una squadra che vince lo scudetto contro ogni pronostico…

«Esattamente è come se fossimo dei brocchi, o presunti tali, che si laureano campioni nella massima serie. Del resto il nostro nome nasce proprio da questa storiella»

Ce la vuoi raccontare?

«Otago è una piccola squadra di rugby della Nuova Zelanda che conquistò il titolo a sorpresa. La parola suonava bene, così come ci piaceva il concetto e la scegliemmo per dare il nome alla nostra band. Dopo cinque minuti la cosa non ci piaceva più ed allora la band si è sciolta e riformata, ribattezzandola Ex-Otago. Il trattino? Ci piaceva e stop».

A proposito di origini. Quando vi vedemmo la prima volta una decina di anni fa, vi classificammo una band demenziale, per quanto simpatica. Quindici giorni fa vi abbiamo rivisti sul palco degli I-Days di Monza e le cose sono cambiate in modo radicale. Cosa è successo?

«Intanto grazie per aver sottolineato la nostra crescita. Considerate che il concerto di Monza per noi è stato molto difficile. Esibirci nel pomeriggio, sotto il sole, senza le nostre luci e lontano dal nostro pubblico ha tolto moltissimo allo spettacolo. Credo di poter dire che all’autodromo eravamo al 30-40% del nostro potenziale. Detto questo posso confermarvi che il nostro metodo di lavoro è cambiato moltissimo. Se prima inseguivamo lo show senza raggiungere l’obiettivo prefissato, oggi siamo più efficaci. Siamo più musicali, anche se non possiamo considerarci grandi musicisti. Rispetto al passato abbiamo più cose da dire e ci siamo dati i mezzi per raggiungere il pubblico in modo concreto».

Cosa vuol dire essere di Genova?

«Vuol dire che sin da bambini si vive in un’atmosfera sopraffatta dall’urbanizzazione estrema. Almeno personalmente questa cosa l’ho subita e mi ha condizionato l’esistenza. Quando ho compiuto 20 anni ho detto stop. Io amante degli animali e della natura non potevo più vivere in quella città. Così, insieme alla mia ex ragazza, sono fuggito in campagna, nell’entroterra».

E ti sei messo a produrre vino?

«E’ stato il caso. Mi piace il vino, ma soprattutto mi affascinano le storie che si porta dentro. Così mi sono preso una cotta per questo prodotto ed in particolare per quello realizzato in modo naturale. Sto progettando una cantina a bassa tecnologia, vinificheremo tutto in rosso (fermentazione con le bucce, ndr), non controlleremo le temperature, non useremo i solfiti. Vogliamo avere un vino figlio di un territorio, semplice e naturale».

Ritorniamo a parlare di musica ed in particolare di pop. In molti quando sentono pronunciare questa parola storcono il naso. Eppure oggi in Italia si registra un vero e proprio boom di artisti e band che dalla scena indipendente hanno sfondato con brani “facili” ed orecchiabili. Come spieghi questo fenomeno?

«E’ una domanda ricorrente a cui è impossibile dare una sola risposta. Ci sono vari indizi che potrebbero spiegare questa esplosione. Il primo è la saturazione da indottrinamento dei talent show. La gente è stufa di questo format e della musica che propone, perché fatta di banalità. Il secondo indizio è una sorta di progressione degli artisti della scena indie, che non si vergognano più di fare pop. E’ naufragato quell’orgoglio alternativo, che li costringeva a stare in una nicchia. Oggi chi arriva dal basso non ha nessuna remora a dire: “noi facciamo musica leggera esattamente come la Pausini, Jovanotti o Ramazzotti».

E gli Ex-Otago?

«Noi ci siamo sempre sentiti pop e questo coraggio è dentro di noi da sempre. Grazie a questa attitudine siamo arrivati ai media, attraverso un linguaggio accessibile. Ma il vero salto di qualità si è concretizzato quando le radio e le major (etichette discografiche internazionali, ndr) hanno deciso di scommettere su di noi e di farci vivere questo bellissimo momento. Chi l’avrebbe mai detto che i piccoli autori avrebbero scritto brani per i big e viceversa».

E così la scena “indie” quella dura e pura inizia a snobbare questo filone.

«Fa parte del gioco. E’ sempre stato così e lo sarà per sempre. Io francamente me ne infischio. Se incontro qualcuno e mi muove critiche costruttive, allora lo ringrazio e li ascolto. Se invece scopro che il suo pregiudizio è dato soltanto dal fatto che passiamo in radio o il nostro linguaggio è di massa, allora guardiamo avanti, senza considerarlo».

Parliamo di “Marassi”. Un disco che ha avuto un grande successo e che presto uscirà con un’edizione rivista, con tantissime collaborazioni. Come è nata questa idea?

«Tutto è partito dal successo che ha avuto la prima versione. Un giorno ci ha telefonato Jack La Furia (ex Club Dogo) che facendoci i complimenti ci ha proposto di collaborare. La cosa ci ha stupito, visto che parliamo di un artista molto lontano dalla nostra filosofia. Noi abbiamo accettato, perché siamo gente di porto e ci piace la misticanza. Lui ci ha spedito alcune prove su whatsapp, in cui rappava su “Occhi della luna”. L’esperimento ci ha conquistato al punto che l’abbiamo ospitato in un nostro concerto e l’abbiamo invitato nello studio di registrazione per incidere il pezzo. Le altre collaborazioni sono arrivate di conseguenza da qui è nato “Marassi De Luxe”».

Come vedi il tuo futuro?

«Lavoro per il futuro, ma cerco di vivere il presente, che già mi riserva imprevisti in rapida sequenza. Sono affascinato dal domani, ma cerco di non pensarci, per evitare di essere fagocitato in un vortice infinito che mi fa perdere di vista la realtà. Di sicuro ci sarà la terra, perché questa è stata la mia scelta. Se scrivo canzoni per gli “Otaghi” e per gli altri è perché ho una vita da raccontare, diversamente non saprei cosa fare. Di sicuro cercherò di far andare le mani e la testa. Quindi, vivrò dei prodotti della campagna e se potrò realizzerò altri dischi».

Intervista a cura di Vincenzo Nicolello

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