Anderson .Paak, talento ed un mix che fa ben sperare!

Grande è il vuoto lasciato dal folletto di Minneapolis (Ndr: Prince) quando, nella primavera di due anni fa, ha inopinatamente deciso di andarsene.
Giá da anni peró, conduceva vita artistica operosa ma in sordina, lasciando cosí di fatto vacante il trono da Principe Rivelato della migliore musica Black, quella che libera la mente, e che il culo segue a ruota…

Tre anni fa il ritorno di D’Angelo con i The Vanguards, album (Black Messiah) e Tour stellare, ci aveva fatto ben sperare, ma urge dannatamente conferma.

Queste le considerazioni che mi girano in testa, nell’attesa del concerto di Anderson .Paak & The Free Nationals al Carroponte.
Californiano, talentuoso ed eclettico musicista (batterista) e produttore, prima che Performer nero del momento; tre album all’attivo di cui l’ultimo del 2016, “Malibu” ha ricevuto attenzioni della critica e Nomination per “la qualunque” (Grammy, BET Award, ecc.).
Re Dr. Dre lo ha voluto alla sua corte nel suo “Compton” del 2015, e proprio per la sua etichetta, la Aftermath, é in uscita il nuovo disco.

Basta per alzare l’asticella delle aspettative?

L’onere del riscaldamento è affidato al dj set di Frank Sativa, pettinato a svolgere nel primo quarto d’ora il compitino, ma pigro e velleitario.
Il Turntablism applicato all’Hip Hop è infatti scienza esatta:
Il casino lo scateni sganciando bombe e facendo i Numeri.
Solo dopo lo chiedi direttamente al pubblico.
L’ingresso di Willie Peyote fortunatamente alza il livello.
Giovane cantautore prestato al rap, tipo il migliore Silvestri;
fresco, intelligente e dotato di grossa (auto)ironia, snocciola in scioltezza cinque pezzi leggeri e pe(n)santi insieme, che le prime file (e non solo), si ritrovano ben presto a cantare e ballare.

Citazione d’obbligo, fra le tante: barre affilate:
“I cani son meglio delle persone
che dicono che i cani sono meglio delle persone”.
Epic Win!

Un lungo e meticoloso cambio palco svuota lo Stage, lasciando sulla destra la batteria, girata di fianco su un palchetto.
Ampli, tastiere e piano delle macchine in fondo, sotto il telo-maxi schermo.

Ciò lascia uno spazio che viene riempito in un lampo dall’incontenibile vitalità di questo folletto, beanie bianco e braghette a righe da marinaretto,
entra in scena come un uragano con un gioioso: “Milano… Facciamo casinooo?”

Botta di adrenalina, attacca e scarica quattro pezzoni Rap, su e giù dal palchetto davanti al microfono centrale, disinvoltura ed esibizionismo a palate.
Culminano col singolo-bomba, Bubblin,
appena uscito e già remixato con featuring di Busta Rhymes.

Lanciato il guanto di sfida a Kendrick Lamar & soci, per stile e punchlines, si può passare al repertorio più suonato.
I brani di Malibu scorrono leggeri, R&B, Nu-Soul e Psych-Acid Jazz, moderni e classici allo stesso tempo.
Lui corre ovunque, alternandosi fra microfono centrale e, sopratutto la batteria, spesso all’interno dello stesso pezzo: un fill, una rullata, un groove o interi brani.

Senza mai smettere di cantare, ballare, e soprattutto sorridere.

Coinvolgere e comunicare la gioia di essere lì è la cifra essenziale dello Show.

Presenta la Band, più volte, lancia i loro assoli, chiama il pubblico.

Verso la fine di nuovo microfono, spazio a qualcosa anche da Venice, album del 2014, Hip Hop cubista ed elettronica sofisticata.

Sofisticati ed originali anche i Visuals che scorrono sul maxi schermo per tutto il concerto;
Pop Art o Psichedelia sono le chiavi. E tanto colore.

La chiusura ci porta anche a Chicago, per una lunga, grassa e nerissima Session Deep House-Funk, che fa muovere culi a tutto il Carroponte (ma secondo me, anche a Cinisello….).

Un paio di bis, fra cui la splendida The Dreamer, per archiviare un’oraemmezza secca di show caldo e trascinante, saluti, inchini di gruppo e promesse di un prossimo ritorno.

Tornando alla premessa, abbiamo trovato “Il” nuovo Principe?

Ni, la strada è ancora lunga, tante le trappole dello ShowBiz, i concorrenti agguerriti,
e forse mancano un pizzico di maturità e di cicatrici, che da sempre completano davvero le grandi Black Souls.

Sì ringrazia Barley Arts per l’invito, testo di Carlo Rodondi, foto di Romano Nunziato.

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